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U2 - “360° European Tour 2010“: Roma 08/10/2010

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Responsabile Video
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U2, discoteca del rock che incanta Roma:
la musica “gira” e stordisce i fans


Ci si può imporre di essere spietati nel giudizio, di non allinearsi alle solite incensature. Si può decidere di seguire il concerto degli U2 puntando sulle incrinature invece che sui fregi, per sottrarsi alla noia di doverne sempre parlare bene. Tanto, male, non gli fa. E’ come dare un pizzico a un gigante. Ma una volta seduti, una volta essersi prestati a diventare parte integrante del 360° tour (il pubblico è un pilastro inamovibile della struttura), si dilegua qualsiasi voglia di criticare. Perché le critiche, davanti a un simile spettacolo, sono stranamente meno affascinanti di un tuffo nella massa uniforme del consenso.

Bellissimo oscillare in settantacinquemila fino a prendere il ritmo di un’unica onda che lambisce la sponda irlandese.

Il colpo d’occhio è straordinario, proprio nel senso di fuori dalla norma. Al centro dello Stadio Olimpico un palco aperto da ogni lato, sovrastato da un ragno e delimitato da quattro enormi chele, un maxischermo cilindrico mobile di 54 tonnellate e 500mila pixel, 30mila cavi, ponti, passerelle, e la guglia centrale che svetta per oltre cinquanta metri. Una basilica meccanica ispirata all’architettura di Gaudì, pensata per far girare vorticosamente la musica e per accorciare le distanze fra band e spettatori. E in effetti il risultato è quanto di più ravvicinato si possa immaginare per uno stadio.
Quando attacca l’intro “Return of the stingray guitar” è subito chiaro che l’impatto visivo non è che una delle componenti del concerto. Ci si trova davanti una live band, che non usa gli effetti ottici per distrarre o per nascondere debolezze. Dopo il conto alla rovescia di “Space oddity” gli U2 entrano a luci accese, come a un incontro di boxe, passeggiano in mezzo alla folla, e nonostante l’impalcatura polifunzionale, lo sguardo del pubblico riesce sempre ad essere fisso sul palco.

Parte “Beautiful day”, e a seguire “I will follow” da “Boy”, l’esordio dell’ ottobre 1980, quando il gruppo si muoveva sul terreno della new wave (a proposito una menzione va ai bravi Interpol d’apertura), un brano così grezzo e vitale che fa trasalire chi ama gli albori del gruppo. Dall’ultimo “No line on the horizon” arrivano “Get on your boots” e “Magnificent”, da “Achtung baby” “Mysterious ways” e “Until the end of the world”, da “All that you can’t leave behind” “Elevation” e la bella “In a little while” (e il pensiero vola a Joey Ramone).

Su “I still haven't found what I'm looking for” Bono ricorda il concerto del Flaminio del 1987, data precisa in cui gli U2 si innamorarono di Roma e viceversa, la chiama “una città magica”, e gli spalti ricambiano con la coreografia del tricolore a tracciare la scritta “One”, una toppa sull’Italia in mille pezzi.

Da “The Unforgettable fire” del 1984 spunta “Bad” e la ninnananna “MLK”, nata per Martin Luther King e ora dedicata a Aung San Suu Kyi, legata a “Walk on” e a “You'll never walk alone”, con tanto di fiaccolata perimetrale. Su “City of blinding lights” lo schermo scende, si allunga, la guglia proietta luci bianche verso la galassia, un faro che sembra segnare la via per la terra agli alieni.

La discoteca parte con “Vertigo”, esagera su “I'll go crazy If I don't go crazy tonight” che, oltre a non essere il momento più edificante, si scontra con quello successivo, serio, atteso, di “Sunday bloody sunday”, la cui marcia iniziale scatena il delirio. Ieri per l’Irlanda, oggi per il Medio Oriente. “Per quanto ancora dovremo cantare questa canzone?”

Intanto Bono la dedica a Roberto Saviano, ricevuto privatamente prima di entrare in scena (c’era anche Zucchero ad attendere udienza).

Il primo bis, anticipato dal video del dell’arcivescovo africano Desmond Tutu è su “One”: lo stadio diventa un tempio, quella la sua preghiera. L’inno “Amazing grace” segna uno dei momenti più toccanti e “Where the streets have no name” si accompagna ad un filmato che commuove i nostalgici, risalente all’epoca di “The Joshua tree” dove i quattro camminavano giovanissimi e in piena grazia creativa nel deserto californiano. Il secondo bis si apre con “Hold me, thrill me, kiss me, kill me”, cantata ad un microfono spaziale illuminato. Tanta tecnologia che Batman al confronto appare un personaggio preistorico. Poi è tempo della ballata “With or without you”, in una versione quasi trascinata, intensa, e il finale su “Moment of surrender”.

La scaletta non dimentica le hit, guarda molto al passato prossimo o addirittura al futuro (“Mercy” sarà contenuta in “Songs of ascent”) ma lo spettacolo è talmente organizzato che lascia poco margine all’improvvisazione e a sorprendenti ripescaggi, così gli U2 si prendono qualche libertà scegliendo a rotazione frammenti di cover (ieri è toccato a “Get up stand up” di Bob Marley, “Relax” dei Frankie Goes to Hollywood, “Anthem” di Leonard Cohen”).

Chi preferisce l’essenzialità sarà rimasto perplesso dalle derive discotecare e da certe pacchianerie (abbigliamento compreso), ma l’intrattenimento è un aspetto fondamentale degli U2 di mezza età e, col cuore in pace, può anche divertire.

Si può essere infastiditi dal fatto che sermoni e santini vengano agitati su un palco che costa 750.000 dollari al giorno, si può essere disillusi dai raduni filantropici dove ci si vuole bene collettivamente ma ci si odia singolarmente, ci si batte qualche ora per un ideale e poi lo si dimentica sul prato, ma senza speranza non si fanno grandi imprese. E la speranza è che davvero il lavoro degli U2 serva e servano queste adunate. Chi era al concerto ieri sera, almeno per la sua durata, non ha avuto dubbi a riguardo.

La più grande catastrofe per chi fa rock è avere grande successo, perché è difficile mantenersi ribelli credibili con un conto in banca milionario. Ma è altrettanto facile mantenersi integri vendendo solo qualche disco. Gli U2 hanno trovato un proprio equilibrio e restano, nel music business, un esempio di resistenza: artistica, perché anche negli episodi peggiori non sono mai scesi al di sotto del dignitoso, e familiare, perché malgrado i disaccordi sono insieme da trent’anni e passa. Gli stessi del principio.

The Edge, con il suo caratteristico suono, l’uso particolare del delay che riesce a determinare l’atmosfera dei brani, a dare aria e creare lo spazio, quell’eco che sembra spedire le note all’infinito. Bono, bravo a fondere estensione vocale e interpretazione. Nel live non è il candidato in odore di Nobel per la pace, il politicante impegnato in colloqui presidenziali, il santo bevitore, il martire o l’evasore fiscale, il presenzialista, l’ipocrita, a secondo dei gusti. Qui è la voce. E che voce. Ha ingranato dall’inizio e ha raggiunto l’apice su “Miss Sarajevo”. La sezione ritmica è misurata, il basso di Adam Clayton suona poche note ma giuste, Larry Mullen Jr incide con il suo drumming pulito, concreto, sempre al servizio del pezzo. Hanno tutti imparato a suonare strada facendo e ne hanno fatta di strada, fino a raggiungere un intreccio armonioso, una tessitura unica di cui si deve tener conto a prescindere da qualsiasi altro orpello.

BREVE SINTESI DEL LIVE










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